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L’edilizia è l’oro dei clan.

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sicurezza-cantieri-1Edilizia, l´oro dei clan: le accuse del pentito Esposito
da Metropolis web – 17 Aprile 2009

Il rapporto tra edilizia e criminalità, tra vittime e carnefici, tra clan e imprese. Questo e altro emerge dall’inchiesta nuova di zecca avviata dall’antimafia sul territorio stabiese. E’ un vecchio canovaccio, già battuto in trent’anni di inchieste da procure antimafia e polizia giudiziaria. Il settore dei lavori pubblici e privati produce ricchezza non solo alle imprese attigue alla camorra ma soprattutto ai clan, foraggiando un sistema criminale che spende i suoi investimenti nel settore – ad esempio – del traffico di stupefacenti. Il teorema è persino elementare: ogni cantiere aperto è fonte di denaro, soprattutto se ai lavori viene ‘applicata’ una tassa al committente destinata al pagamento del pizzo. Non lo sostiene un cronista preveggente o un magistrato illuminato, lo riferisce un protagonista di questo meccanismo antico: Antonio Esposito, 42 anni, confessò agli inquirenti di essere stato a capo di un clan camorristico attivo dal 2001 al 2008 e di aver organizzato un racket del calcestruzzo con la complicità di un imprenditore edile di alto rango, che grazie alla reputazione criminale del boss riuscì ad ottenere il monopolio delle forniture di cemento. Va detto che le estorsioni segnalati nelle 78 pagine di ordinanza firmate dal gip Pepe a carico di capi e gregari del clan sono circa 14 ma che il coinvolgimento di Salvatore Langellotto (imprenditore edile di Sant’Agnello) si limita ad un solo caso: non tragga in inganno questo dato, perché nelle sue deposizioni Esposito parla di ‘sistema’ e del coinvolgimento di altri imprenditori che avrebbero legato le fortune delle loro aziende al vincolo con la criminalità organizzata. Trent’anni di inchieste, dunque, per svelare il segreto di Pulcinella? Non è così: il fenomeno emerso negli anni del post-terremoto fu rubricato come un apparato di potere che vedeva coinvolti soprattutto i politici nella gestione dei finanziamenti pubblici per la ricostruzione (come riferito dal pentito numero uno della camorra vesuviana a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, Pasquale Galasso, ndr); questo microsistema di contiguità e di pacifica convivenza (relativo ad un periodo storico che va dal 2000 al 2009 nell’area stabiese) invece mette in primo piano la figura degli imprenditori, che da vittime della malavita sono passati al ruolo di carnefici nei confronti di imprese concorrenti. Non stupisca un altro dato: le estorsioni messe a segno da ‘quelli di Santa Maria’ sono tutte riconducibili a lavori di edilizia privata, in un contesto criminale libero dal controllo ‘pubblico’ degli appalti e alimentato dalla sete di facili guadagni che solo un’estorsione ‘porta a porta’ riesce a garantire (in un rapporto ‘libero’ non esistono infatti procedure per l’assegnazione dei lavori e per il finanziamento degli interventi). Un terreno appetibile, insomma, finora inedito e per certi versi tollerato e poco indagato.
Dice il pentito: “Con Langellotto si era stabilito uno stretto legame anche perché io stesso ero intervenuto con Michele Onorato (‘o piemontese, ndr) affinché questi non continuasse a chiedere denaro allo stesso Langellotto, la cui ditta aveva sede proprio a Castellammare. In un’altra occasione intervenni in favore di Langellotto presso un imprenditore di Sorrento che vantava un credito di oltre centomila euro per pregresse forniture di materiale. A questo imprenditore sorrentino feci chiaramente capire che ero un camorrista e che almeno per il momento doveva recedere dal suo proposito di ottenere il pagamento di quanto a lui dovuto”. Insomma, Esposito conferma da un lato la condizione di vittima assunta da Langellotto nei confronti di un esponente del clan Cesarano, dall’altro lo indica quale mandante di un ‘avvertimento’ in puro stile mafioso nei confronti di un altro imprenditore. “Per sdebitarsi da tutti questi favori Langellotto aveva in programma di distribuire al mio gruppo parte dei proventi che avrebbe ottenuto con la realizzazione di cinquanta box auto nella zona di Roma. Non avendo però ottenuto i finanziamenti presso gli istituti di credito cui lo stesso faceva affidamento, Langellotto non riuscì a portare a segno questa operazione”.
Il rapporto tra edilizia e camorra non riguarda solo la gestione di mega-appalti pubblici, dunque. C’è la delinquenza spicciola in rampa di lancio, un substrato di omertà e di contiguità che appartiene più alla sfera culturale che ad un disegno criminale ad alta definizione. Per certi versi un fenomeno più preoccupante, perché invisibile e sottobanco. Per recuperare i soldi da versare ai clan, l’imprenditore ha due strade: o alzare la posta – rischiando però di perdere la gara o l’affidamento – oppure risparmiare sulle forniture, anche quando queste vengono direttamente acquistate dall’imprenditore legato alla camorra. Un meccanismo che nel peggiore dei casi edifica castelli di sabbia, come quelli di L’Aquila.
E anche su questo versante il contesto storico rafforza queste tesi di contiguità o di assoggettamento. Dal 2001 in avanti erano attivi nove clan in città e nei paesi limitrofi: oltre ai D’Alessandro, i Cesarano – grazie ad una cellula formata da personaggi di rango come Michele Onorato, alias ‘o piemontese e i fratelli Cascone – taglieggiavano imprese edili e commercianti da Ponte Persica a Pompei: l’impresa amica era gestita da un imprenditore edile, sul modello del rapporto tra Langellotto con Esposito & company. I D’Alessandro stessi godevano della copertura economica di un nutrito gruppo di imprese, che nell’inverno del 2004 fu preso d’assalto da un banda armata (il cosiddetto clan Scarpa-Omobono), generando una faida che produsse la bellezza di 11 morti.
Rocco Traisci

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