ATTENZIONE: La pubblicazione degli articoli continua sul sito www.altrabeneventopossibile.it
You Are Here: Home » Economia » Liberismo » Quando il Sud manteneva l’economia del Nord Italia

Quando il Sud manteneva l’economia del Nord Italia

Stampa questo articolo Stampa questo articolo

di Raffaele Langone

Da Gli Italiani del 10 maggio 2010

“Il Veneto mantiene il Sud come fa la Germania con la Grecia”..così tuonava qualche giorno fa Zaia, il neo eletto presidente della regione veneto. Ma le cose stanno veramente così?..E poi se così fosse (e non lo è)..perchè siamo arrivati a tanto?

Ci aiuta a capire come stanno le cose Gaetano Salvemini, con le sue “attualissime analisi” sulla “Questione Meridionale”.

Il pensiero che Gaetano Salvemini ha elaborato fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e gli inizi del Novecento rappresenta, di certo, uno dei contributi più lucidi e lungimiranti che la classe politica ed intellettuale di quegli anni sia riuscita a produrre.

In un’epoca in cui l’Italia viveva una profondissima crisi politica, sociale ed economica, Salvemini ha anticipato molti dei suoi contemporanei nell’analisi e nella proposta di risoluzione dei più gravi problemi che travagliavano l’Italia.

Non avrebbe fatto piacere allo storico pugliese il ritrovare, a distanza di oltre cento anni, la questione meridionale ascritta in quell’elenco che indica chiaramente che la questione è ancora presente, è ancora viva, in altri termini, è ancora irrisolta.

L’amore che Salvemini nutriva per i meridionali fu forte al punto da influenzarne tutte le scelte; e la questione meridionale era da lui considerata l’irrinunciabile punto da cui partire per lo sviluppo dell’Italia intera. Salvemini aveva infatti chiaro che “il nodo dei problemi che andava sotto il nome di questione meridionale, diventava la condizione pregiudiziale per la trasformazione dell’Italia in un paese civile, ed il banco di prova quindi dei partiti che si ponevano come partiti di audace rinnovamento o rivoluzione”. E Salvemini, infatti, considerò la questione meridionale come punto di confine fra la corruzione e lo sviluppo dell’Italia.

E’ questo, quindi, il motivo per cui ogni sua azione ed ogni suo scritto furono volti alla risoluzione di un unico problema: quello della disparità fra il Nord e il Sud d’Italia. E’ importante tenere presente che, a parere di molti studiosi, le condizioni di squilibrio fra il Nord e il Sud erano dovute ad una serie di fattori non superabili che ponevano il Sud in una posizione di insanabile inferiorità rispetto al Nord.

Infatti “le spiegazioni positivistiche, scientifiche, della maggioranza degli scrittori di cose meridionali, attribuivano la causa dell’inferiorità sociale del Mezzogiorno a fatti naturali come il clima e la razza, contro cui sarebbe stato vano lottare”. E’ ovvio che considerazioni di questo tipo furono fatte in funzione di un disinteresse sprezzante per le condizioni del Meridione. Analizzandola, la posizione di Salvemini è di totale contrasto: “nego assolutamente che il carattere dei meridionali, diverso da quello dei settentrionali, abbia alcuna parte nella diversità di sviluppo dei due paesi. La razza si forma nella storia ed è effetto di essa non causa; spiegare la storia di un paese con la parola razza è da poltroni e da semplicisti”. In realtà, la posizione di Salvemini è storicamente documentata; è confermata, infatti, la tesi secondo cui l’arretratezza del meridione era dovuta a minori opportunità di sviluppo del Sud rispetto al Nord. Allora, come per troppi aspetti ancora oggi, il Nord rappresentava il centro degli interessi economici, e quindi la zona su cui maggiormente investire.

Il Meridione, a parere di Salvemini, soffriva di tre malattie: lo Stato accentratore, l’oppressione economica del Nord ed una struttura sociale semifeudale.

Le prime due, generate da politiche protezionistiche ed autoritarie, permettevano al Nord di opprimere il mezzogiorno.

Cosa strana è che, quando si unì l’Italia, il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti; l’unità, quindi, ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gli interessi dei debiti contratti dai settentrionali. Infatti la ripartizione del carico fiscale era estremamente iniqua e “faceva sì che l’Italia settentrionale, la quale possedeva il 48% della ricchezza del paese, pagava meno del 40% del carico tributario, mentre l’Italia meridionale, con il 27% della ricchezza pagava il 32%”.

L’Italia meridionale, quindi, dava senza ricevere, poiché tutti gli investimenti, come quelli destinati all’esercito ed alle ferrovie, erano concentrati prevalentemente nel settentrione. “L’Italia meridionale – scrive Salvemini – deve oggi comprare dall’Italia del Nord i prodotti manifatturieri ai prezzi, che gli industriali si son compiaciuti di stabilire; viceversa non può vendere al Nord le sue derrate agricole, perché le tariffe ferroviarie rendono impossibile la circolazione delle merci di gran volume e di basso prezzo quali sono appunto i prodotti dell’agricoltura meridionale”.

Quindi, le tasse ed i dazi sui prodotti agricoli, ben “dieci volte superiori a quelli dei prodotti manifatturieri”, impedivano in Italia il commercio dei prodotti meridionali, esclusivamente agricoli.

“Così – accusa Salvemini – noi assistiamo allo spettacolo che i limoni si pagano cinque a soldo a Messina e due soldi l’uno a Firenze, e un litro di vino costa venti centesimi a Barletta e cinquanta a Lodi”.

Dunque le tasse ed i dazi furono stabiliti con un unico scopo: sviluppare il mercato del Nord e rendere non concorrenziale quello del Sud. Gli industriali settentrionali poterono accordarsi con il governo a loro piacimento tanto che Salvemini, sarcasticamente, scrive così: “ e meno male che in Lombardia sono scarsi i vigneti, e che i proprietari lombardi non sono minacciati, come i piemontesi dalla concorrenza dei vini meridionali: se questo fosse, noi vedremmo anche in Lombardia le amministrazioni comunali, dominate dai proprietari, istituire dazi differenziali a danno dei vini a forte gradazione alcolica (meridionali) in modo da rialzarne artificialmente i prezzi più che non sieno rialzati dalle tariffe ferroviarie, e restringerne il consumo a tutto vantaggio dei vini locali”.

Da qui il rammarico sconsolato di un Salvemini alla continua ricerca di una via d’uscita; un provvedimento, una riforma che avesse creato i presupposti di una concorrenza onesta nel commercio italiano ed internazionale. “Potessimo almeno le nostre merci venderle fuori dall’Italia Ma le nazioni straniere, non potendo per le tariffe del 1887 venderci i loro prodotti industriali – ché il monopolio di questi se lo sono attribuito gl’industriali del Nord – non vogliono saperne naturalmente dei nostri vini, dei nostri ortaggi, della nostra frutta dei nostri agrumi.

Per meglio spiegare la terza “malattia”, la struttura sociale semifeudale, Salvemini ricorda che la società meridionale era distinta in tre classi sociali: la grande proprietà, la piccola borghesia e il proletariato agricolo.

Ora, il potere incontrastato dei latifondisti, impediva la formazione di una borghesia moderna come quella presente nel Nord, e che sola avrebbe permesso lo sviluppo e la democratizzazione del meridione. Salvemini, inoltre, faceva notare come il potere delle prime due classi fosse forte al punto da influenzare e manipolare la vita politica e sociale del meridione. Questa analisi, ovviamente, è salveminiana, cioè dura e spietata; ma utile poiché lascia intendere al lettore quanto egli realmente conoscesse la situazione meridionale.

La grande proprietà, antichissima nelle sue dinastie, era riuscita a superare indenne tutti i vari cambiamenti di regime restando sempre in sella, ed aveva “fatto sì che il Risorgimento risultasse nel Mezzogiorno non una rivoluzione, ma una corbellatura, ed [era] e sarà pronta sempre a vestire nuove livree pur di difendere il suo potere fino all’ultimo sangue”.

A parere di Salvemini, il potere della grande proprietà sarebbe rimasto forte perché risulta essere coordinato, oltre che appoggiato dalla piccola borghesia con cui si era creato un solido legame di cooperazione. “I due alleati si distribuiscono, da buoni amici, il terreno da sfruttare”.

Dunque, i latifondisti si adoperavano perché nulla cambiasse. Ogni loro azione era volta al mantenimento di quei vecchi privilegi ormai perduti in ogni altra parte dell’Italia.

“I latifondisti e la grande proprietà fondiaria erano indenni dai mali che affliggevano il Mezzogiorno, ed erano i veri beneficiari dello status quo, che perciò essi erano pronti a difendere con le unghie e con i denti”. Sarebbe necessario ricordare che i grandi proprietari non erano neppure oppressi dalle tasse. Ad esempio, posto che nel sistema tributario meridionale aveva grossa consistenza il dazio sul consumo, i latifondisti pagavano poche tasse perché il calcolo era fatto non in base a quanto il terreno avrebbe potuto produrre, ma a quanto in realtà produceva. E poiché i terreni producevano poco, poco pagavano. “Se i grandi proprietari non erano oppressi dalle tasse, in compenso essi e soltanto essi si giovavano dei dazi di importazione sul grano, che costituivano un grosso tributo annuo pagato dai consumatori al loro dolce far niente”

Ecco, presidente Zaia, sono passati 150 anni e non è cambiato nulla. Lei è come i piemontesi di allora. Complimenti, veramente tanti complimenti !!!

Condividi su:
  • Twitter
  • Facebook

© Altrabenevento

Scroll to top